We can’t change

novembre 27, 2008

Giusto una settimana fa mi trovavo – come ogni giovedì – alla lezione di marketing politico tenuta dal Professor Marco Cacciotto. Potete facilmente intuire, visti gli argomenti trattati, quanto mi interessi questa materia: si parla in modo approfondito di campagne elettorali presenti e passate, si analizzano i vari elettorati e via dicendo, senza ovviamente dimenticare l’ultima campagna di Barack Obama. Una campagna che molto probabilmente, per molti versi, farà scuola e verrà ripresa (per non dire ricopiata) da molti altri leader politici mondiali.

Ochei, vengo subito al dunque, che magari non a tutti interessa approfondire la materia, che in realtà è molto più ampia. Quel giorno però c’era un ospite, Maurizio Martina, Segretario Regionale del PD in Lombardia. È venuto a raccontare principalmente la sua esperienza vissuta in America, dove ha seguito la campagna elettorale svolta dai Democratici. Dall’interno, dai quartieri generali, da alcune città, a contatto con giovani, vecchi, saggi e volontari dell’ultima ora.

Raccontava in modo abbastanza entusiasta come, innanzitutto, i Democratici americani non abbiano una struttura costruita in modo analogo al modello dei nostri partiti. “Fortunatamente”, pensavo io. Quelli dell’Illinois poi, sono davvero amici di molti democratici del PD italiano.

Ma la vera differenza parte dall’organizzazione territoriale del partito democratico americano, che reduce da due sconfitte consecutive ha decisamente cambiato rotta. Loro sono solidi territorio per territorio, in modo diretto, senza troppi giri strani; sono anche organizzati ottimamente sulle stesse scansioni elettorali; il coordinamento è funzionale alla Rete del partito. Per citarvi il caso italiano invece, qui in ogni ambito istituzionale (dal quartiere alla circoscrizione e dalla provincia alla regione) c’è un presidente, uno che alla fin fine decide per conto suo, ma ufficialmente come PD.

Insomma, se prima i Repubblicani facevano man bassa nei piccoli territori, nei paesi e via discorrendo, ora i Democratici li hanno stracciati, conquistando molte roccaforti nemiche. Questo però è stato possibile solo grazie ad un cambio epocale di passo partito dalla stessa base del partito. Fondamentale, spiegava Maurizio Martina, è stato il ruolo di Howard Dean, che dopo aver perso nelle primarie 2003 contro Carry, è diventato presidente nazionale dei democratici.

Con lui infatti i democratici americani sono tornati a ragionare sul territorio: fino alle ultime politiche vincevano solo la rappresentanza territoriale difendendo i territori forti di provenienza, mantenevano le grandi aree metropolitane ma lasciavano ai repubblicani tutto il resto. Sostanzialmente veniva accentuata molto la frattura città/campagna. Uno degli errori strategici che anche il PD italiano continua a commettere (pensate alle elezioni 2006, dove la campagna di Prodi fu incentrata solo ed esclusivamente a mantenere un vantaggio che in realtà vantaggio non era; basta vedere i dati delle regionali 2005 per capirlo).

Ovviamente fondamentale – come sempre – è risultato coinvolgere e convincere gli indecisi, cioé quelli che alla fine ti fanno vincere le elezioni. Dean ha cominciato un nuovo ragionamento di radicamento territoriale, soprattutto nei luoghi in cui i democratici erano più deboli. Semplice ma efficace.

Certo, il fatto di avere Obama, un vero leader quindi, aiuta molto. Ma la vittoria si è giocata molto anche sui temi, sulle cosiddette economic issues (la crisi in America è già ben altra cosa) che hanno prevalso sulle security issues, dove ancora i democratici hanno qualcosa da imparare evidentemente.

Per la prima volta poi mi sono stupito nel sentire Martina che spiegava come il web abbia avuto un ruolo importantissimo, anche se al web associava principalmente i volontari. Basti pensare solo a quanti soldi sono stati raccolti via Internet da Obama, per dire.
C’è un altro fattore però: per la prima volta non era presente alcun particolare orgoglio razziale che poteva dividere e creare strani controsenti; questa volta in campo c’era l’America e gli americani.

Questa volta insomma, tutti i giovani hanno votato per Obama, specialmente gli ispanici. Bisogna ringraziare le centinaia di volontari di Obama, perché erano inquadrati in una cornice organizzativa più che notevole. Essi hanno così saputo “mappare” correttamente il territorio, fattore che ha scavato una notevole differenza coi repubblicani.

Il Segretario però, precisava anche che non bisogna avere una visione “romantica” di Internet: non è che Obama ha vinto solo grazie al web. E fin qui siamo tutti d’accordo. Dall’altro lato però, il cambio di direzione partito dal web, la mobilitazione totalmente orizzontale e la rivoluzione dei contenuti politici e della campagna sono stati vitali per il trionfo di Obama.

Ed è proprio quando ho sentito “cambio di contenuti” che mi è cominciata a frullare per la testa una domanda fastidiosa da fare al Segretario (stimolato anche da Roberto Felter via twitter). Perché ok, la campagna americana, Obama e tutto il resto sono davvero delle cose interessantissime, stimolanti e sarebbe fantastico vederle in Italia. Ma è qui che sta il dubbio.

Ecco, arriva il momento delle domande finali, quindi gliela faccio. Gli spiego subito che la mia è più una domanda politica.
Gli dico, testualmente:

“lei non crede che una campagna fatta in un paese in cui, per un amante ci si dimette; se un parlamentare usa un aereo di stato viene arestato, così come se si fa falso in bilancio (etc.), non vada bene per un paese dove si viene eletti ministri con favori sessuali o dove, per citarle un episodio dell’altro ieri, un esponente del suo stesso partito consiglia la risposta ad un altro dell’opposizione? Crede che la popolazione italiana sia davvero pronta per un certo tipo di cambio di contenuti, di cui ha parlato anche lei?”

Speravo che almeno in una piccola aula universitaria un giovane del PD di buone speranze confermasse certe cose, esponendosi magari. In realtà, come mi aspettavo, la risposta è stata abbastanza elusiva. Per carità, Martina non ha negato niente, ma più che altro ha improntato la risposta sul ricambio generazionale, che ci vogliono nuovi giovani, nuove facce, un vero cambiamento. Al che gli ho fatto notare che l’esempio dovrebbe venire da loro per prima.

E anche qui era d’accordo, che ci vuole una mossa comune, anche da parte di chi è vecchio e non vuole scollarsi dalle poltrone comode di partito. A quel punto ho capito cosa voleva dirmi, quindi l’ho tradotto, dicendoglielo: “insomma, ci manca un leader, no?” “Sì è vero”, mi ha risposto.

Piccola parentesi. Il Segretario ha anche voluto precisare che si dissociava dal comportamento di Latorre (ricordate la storia del pizzino?) e che non era d’accordo con lui. E io avrei voluto fargli notare che non è tanto normale che in un partito ognuno faccia quel cavolo che vuole, e che ognuno la pensi in modo diverso dall’atro. Cioé, a voi pare normale?!

Parliamoci chiaro: Maurizio Martina e tanti altri come lui interni al PD, sanno bene che esistono certe usanze tristi e antiquate che continueranno a far perdere le elezioni a questa strana sinistra, che poi sinistra non è.
Solo che in questo modo, il partito che doveva rivoluzionare l’Italia, il cambio epocale e via dicendo, si sta sgretolando in modo imbarazzante. Tra gente che si dimette, gente che se ne frega degli ordini di colui che dovrebbe essere il leader e “si diverte”, eccetera eccetera.

Del resto, da tutto questo Veltroni si nasconde. Non c’è, come se non esistesse. Non una parola, mai una volta. Solo apparizioni misteriose.
Come fa un leader a non rispondere ad una disperata lettera di dimissioni come questa? Certo, il popolo italiano non è in grado di comprendere nemmeno uno dei motivi addotti dalla Tinagli, non è in grado di analizzarli e porsi davanti a loro con un atteggiamento critico.

Ma dove sono iMille? I democratici che volevano cambiare? Dov’è finito il “Yes, we can”? Cosa è cambiato? Niente. Siamo ancora in balia della Binetti, di un democristiano e di tanti strani personaggi che in società mature, al massimo raccoglierebbero pomodori. Con tutto il rispetto per i pomodori.

Se ci sarà mai un democratico che passerà di qui, mi ascolti: non è possibile cambiare senza cambiare.