Voglio diventare grande

gennaio 28, 2009

Cioé, capiamoci: negli Usa un ragazzo del 1981 ha l’onore di scrivere i discorsi per Barack Obama e non solo, ma per il Corriere della Sera, alla costante caccia della notiziona cliccabile, con tanto di riferimento più o meno velato a tette, figa, culo o quello che preferite, la notizia importante è che lui esce con una ex ragazza copertina (senza contare che, donne, questo pezzo vi ricorda per l’ennesima volta qual è il vostro ruolo in questo paese).

E così, bene o male, fanno gli altri giornali. Se negli altri paesi si cerca di far convergere e interagire carta stampata, internet e nuovi mezzi, magari offrendo servizi qualitativamente migliori (una delle strade forse più percorribili perché nell’interesse di tutti), la mission della classe giornalistica italiana è quella di continuare ad appiattire le menti, rendendoci degli automi totalmente inebetiti da una realtà che nemmeno in un film di fantascienza sarebbe stata così nefasta.

Qui l’interesse importante è quello del padre padrone, sempre e comunque, in ogni contesto. E non importa se da noi a 27 anni, quando va bene, al massimo hai un contratto a progetto sotto i 1.000 euro, sei in casa con i tuoi genitori e sei costretto – se hai due dita di cervello – a fare una vita di merda, di rinunce, di paranoie perché non sai che cosa cazzo sarà di te da qui a 10 minuti e questa cosa ti distrugge, ti consuma dentro, perché tu vorresti ma non puoi cazzo, non puoi. E intanto la vita se ne va, mentre tu capisci che stai perdendo una valanga di tempo che potresti dedicare a progetti, crescite personali, aziendali, della comunità in cui vivi. Ma non puoi, perché vivi in Italia e sei un italiano: il “lei” te lo danno solo perché sono educati e tu sei uno sbarbatello.

La circonvenzione di incapace qui da noi funziona benissimo coi giovani. E’ il conflitto generazionale che ci sta fregando, nessuno capisce l’importanza di questo fattore. E dobbiamo cominciare a lottare per questo. I giovani in Italia non sono rappresentati da nessuno. Non sono nei partiti, nei giornali, nei cda delle aziende, nella classe dirigente. Se ci sono è solo in quanto figli del potente di turno.
Nei fatti quindi, dei giovani non interessa niente a nessuno. Politiche pubbliche per chi ha trentacinque anni, o meno, per la maternità, per l’affitto, per la salute, per la carriera, semplicemente non esistono. Ma quali sono i problemi dell’agenda politica, invece?

Non esiste un cane che parli di welfare, welfare e ancora welfare. Servono decine di ammortizzatori sociali: aiuti sociali per i single e le famiglie, supporti concreti per uscire di casa, per non dipendere dalla sacra famiglia unita. Gli incentivi al digitale terrestre invece non servono a un beneamato cazzo!

E poi? Ci serve un cambiamento culturale nel nostro paese, che non è mai avvenuto e che forse non avverrà mai. Perlomeno con questi incompetenti disonesti che credono di governarci. Deve funzionare il merito al posto delle parentele, il talento al posto del leccaculismo, sdoganato ormai come una pratica di cui vantarsi (“sono amico di, quindi…”). Questa sarebbe la vera ed unica flessibilità.

Per la classe dirigente però, tutto ciò è solo fumo negli occhi: per loro vorrebbe dire essere messi in discussione. Quindi, non dobbiamo più aspettarci un bel niente.
Finchè noi giovani, precari, senza diritti, i più deboli della società in generale, non ci facciamo entrare in questa fottuta testa di arrabbiarci e pretendere seriamente che un futuro migliore possa esistere, sarà impossibile che le cose cambino.

Bisogna cominciare a crescere veramente. Ognuno si prenda le proprie responsabilità e cominci davvero ad essere e sentirsi patriota, non soltanto quando ci prendono giustamente per il culo da un qualsiasi paese estero, ma anche quando quotidianamente, chi ha ancora pochi anni da vivere, continua imperterrito a rubarci i pochi sogni che ancora abbiamo la possibilità di desiderare.


We can’t change

novembre 27, 2008

Giusto una settimana fa mi trovavo – come ogni giovedì – alla lezione di marketing politico tenuta dal Professor Marco Cacciotto. Potete facilmente intuire, visti gli argomenti trattati, quanto mi interessi questa materia: si parla in modo approfondito di campagne elettorali presenti e passate, si analizzano i vari elettorati e via dicendo, senza ovviamente dimenticare l’ultima campagna di Barack Obama. Una campagna che molto probabilmente, per molti versi, farà scuola e verrà ripresa (per non dire ricopiata) da molti altri leader politici mondiali.

Ochei, vengo subito al dunque, che magari non a tutti interessa approfondire la materia, che in realtà è molto più ampia. Quel giorno però c’era un ospite, Maurizio Martina, Segretario Regionale del PD in Lombardia. È venuto a raccontare principalmente la sua esperienza vissuta in America, dove ha seguito la campagna elettorale svolta dai Democratici. Dall’interno, dai quartieri generali, da alcune città, a contatto con giovani, vecchi, saggi e volontari dell’ultima ora.

Raccontava in modo abbastanza entusiasta come, innanzitutto, i Democratici americani non abbiano una struttura costruita in modo analogo al modello dei nostri partiti. “Fortunatamente”, pensavo io. Quelli dell’Illinois poi, sono davvero amici di molti democratici del PD italiano.

Ma la vera differenza parte dall’organizzazione territoriale del partito democratico americano, che reduce da due sconfitte consecutive ha decisamente cambiato rotta. Loro sono solidi territorio per territorio, in modo diretto, senza troppi giri strani; sono anche organizzati ottimamente sulle stesse scansioni elettorali; il coordinamento è funzionale alla Rete del partito. Per citarvi il caso italiano invece, qui in ogni ambito istituzionale (dal quartiere alla circoscrizione e dalla provincia alla regione) c’è un presidente, uno che alla fin fine decide per conto suo, ma ufficialmente come PD.

Insomma, se prima i Repubblicani facevano man bassa nei piccoli territori, nei paesi e via discorrendo, ora i Democratici li hanno stracciati, conquistando molte roccaforti nemiche. Questo però è stato possibile solo grazie ad un cambio epocale di passo partito dalla stessa base del partito. Fondamentale, spiegava Maurizio Martina, è stato il ruolo di Howard Dean, che dopo aver perso nelle primarie 2003 contro Carry, è diventato presidente nazionale dei democratici.

Con lui infatti i democratici americani sono tornati a ragionare sul territorio: fino alle ultime politiche vincevano solo la rappresentanza territoriale difendendo i territori forti di provenienza, mantenevano le grandi aree metropolitane ma lasciavano ai repubblicani tutto il resto. Sostanzialmente veniva accentuata molto la frattura città/campagna. Uno degli errori strategici che anche il PD italiano continua a commettere (pensate alle elezioni 2006, dove la campagna di Prodi fu incentrata solo ed esclusivamente a mantenere un vantaggio che in realtà vantaggio non era; basta vedere i dati delle regionali 2005 per capirlo).

Ovviamente fondamentale – come sempre – è risultato coinvolgere e convincere gli indecisi, cioé quelli che alla fine ti fanno vincere le elezioni. Dean ha cominciato un nuovo ragionamento di radicamento territoriale, soprattutto nei luoghi in cui i democratici erano più deboli. Semplice ma efficace.

Certo, il fatto di avere Obama, un vero leader quindi, aiuta molto. Ma la vittoria si è giocata molto anche sui temi, sulle cosiddette economic issues (la crisi in America è già ben altra cosa) che hanno prevalso sulle security issues, dove ancora i democratici hanno qualcosa da imparare evidentemente.

Per la prima volta poi mi sono stupito nel sentire Martina che spiegava come il web abbia avuto un ruolo importantissimo, anche se al web associava principalmente i volontari. Basti pensare solo a quanti soldi sono stati raccolti via Internet da Obama, per dire.
C’è un altro fattore però: per la prima volta non era presente alcun particolare orgoglio razziale che poteva dividere e creare strani controsenti; questa volta in campo c’era l’America e gli americani.

Questa volta insomma, tutti i giovani hanno votato per Obama, specialmente gli ispanici. Bisogna ringraziare le centinaia di volontari di Obama, perché erano inquadrati in una cornice organizzativa più che notevole. Essi hanno così saputo “mappare” correttamente il territorio, fattore che ha scavato una notevole differenza coi repubblicani.

Il Segretario però, precisava anche che non bisogna avere una visione “romantica” di Internet: non è che Obama ha vinto solo grazie al web. E fin qui siamo tutti d’accordo. Dall’altro lato però, il cambio di direzione partito dal web, la mobilitazione totalmente orizzontale e la rivoluzione dei contenuti politici e della campagna sono stati vitali per il trionfo di Obama.

Ed è proprio quando ho sentito “cambio di contenuti” che mi è cominciata a frullare per la testa una domanda fastidiosa da fare al Segretario (stimolato anche da Roberto Felter via twitter). Perché ok, la campagna americana, Obama e tutto il resto sono davvero delle cose interessantissime, stimolanti e sarebbe fantastico vederle in Italia. Ma è qui che sta il dubbio.

Ecco, arriva il momento delle domande finali, quindi gliela faccio. Gli spiego subito che la mia è più una domanda politica.
Gli dico, testualmente:

“lei non crede che una campagna fatta in un paese in cui, per un amante ci si dimette; se un parlamentare usa un aereo di stato viene arestato, così come se si fa falso in bilancio (etc.), non vada bene per un paese dove si viene eletti ministri con favori sessuali o dove, per citarle un episodio dell’altro ieri, un esponente del suo stesso partito consiglia la risposta ad un altro dell’opposizione? Crede che la popolazione italiana sia davvero pronta per un certo tipo di cambio di contenuti, di cui ha parlato anche lei?”

Speravo che almeno in una piccola aula universitaria un giovane del PD di buone speranze confermasse certe cose, esponendosi magari. In realtà, come mi aspettavo, la risposta è stata abbastanza elusiva. Per carità, Martina non ha negato niente, ma più che altro ha improntato la risposta sul ricambio generazionale, che ci vogliono nuovi giovani, nuove facce, un vero cambiamento. Al che gli ho fatto notare che l’esempio dovrebbe venire da loro per prima.

E anche qui era d’accordo, che ci vuole una mossa comune, anche da parte di chi è vecchio e non vuole scollarsi dalle poltrone comode di partito. A quel punto ho capito cosa voleva dirmi, quindi l’ho tradotto, dicendoglielo: “insomma, ci manca un leader, no?” “Sì è vero”, mi ha risposto.

Piccola parentesi. Il Segretario ha anche voluto precisare che si dissociava dal comportamento di Latorre (ricordate la storia del pizzino?) e che non era d’accordo con lui. E io avrei voluto fargli notare che non è tanto normale che in un partito ognuno faccia quel cavolo che vuole, e che ognuno la pensi in modo diverso dall’atro. Cioé, a voi pare normale?!

Parliamoci chiaro: Maurizio Martina e tanti altri come lui interni al PD, sanno bene che esistono certe usanze tristi e antiquate che continueranno a far perdere le elezioni a questa strana sinistra, che poi sinistra non è.
Solo che in questo modo, il partito che doveva rivoluzionare l’Italia, il cambio epocale e via dicendo, si sta sgretolando in modo imbarazzante. Tra gente che si dimette, gente che se ne frega degli ordini di colui che dovrebbe essere il leader e “si diverte”, eccetera eccetera.

Del resto, da tutto questo Veltroni si nasconde. Non c’è, come se non esistesse. Non una parola, mai una volta. Solo apparizioni misteriose.
Come fa un leader a non rispondere ad una disperata lettera di dimissioni come questa? Certo, il popolo italiano non è in grado di comprendere nemmeno uno dei motivi addotti dalla Tinagli, non è in grado di analizzarli e porsi davanti a loro con un atteggiamento critico.

Ma dove sono iMille? I democratici che volevano cambiare? Dov’è finito il “Yes, we can”? Cosa è cambiato? Niente. Siamo ancora in balia della Binetti, di un democristiano e di tanti strani personaggi che in società mature, al massimo raccoglierebbero pomodori. Con tutto il rispetto per i pomodori.

Se ci sarà mai un democratico che passerà di qui, mi ascolti: non è possibile cambiare senza cambiare.


La Lettera di Dora dagli USA

ottobre 18, 2008

Due giorni fa aprendo la mail del blog ho ricevuto una piacevolissima sorpresa. Ho infatti trovato una mail di Dora, una lettrice del blog che ora vive negli Usa.
La sua lettera mi ha dato una scossa e spero che possa far provare anche a voi la stessa sensazione; per questo voglio ringraziare Dora: con le sue parole ci sta dicendo che da qualche parte, se lo vogliamo, un’alternativa esiste sempre. Ma soltanto se a rimboccarsi le maniche siamo noi.

«Ciao Alex,
sono Dora dagli USA. Ci siamo già sentiti in un commento ad uno dei tuoi post. Ho appena letto il tuo post sulla fuga di Saviano dall’Italia. Mi rattrista, mi rattristano le tue riflessioni e mi rattrista la sua decisione e sai perché? Perché mi ci ritrovo perfettamente.

Io sono qui in USA perché mio marito é americano e l’ho seguito quando l’ho sposato, non è che c’era molta scelta, l’Italia non ci offriva possibilità, l’America, tanto criticata dai moralisti italiani, invece ce ne offre tante.

In Italia ci vivevo ma ero arrabbiata, arrabbiata con tutto quello che non andava, proprio come te, mi ritrovo in quasi tutto quello che leggo nei tuoi post, e mi incazzo perché non vedo via di uscita. Ma poi penso, beh, io sono qui e ne sono uscita da quella merda, ora ho un lavoro, una casa, una famiglia, sono circondata dalla legalità dalla pulizia, dalla gente che rispetta le regole, dal rispetto degli altri e dalla voglia di rispettare gli altri. Ma perché tutto questo in Italia è impossibile? Non posso dire che sia radicato nei geni degli italiani, perché vedo gli italiani che vivono qui che sanno comportarsi bene, o forse quelli che vivono qui sono quelli che non riuscivano a vivere all’italiana e sono scappati? Non so.

Ci sarà una via d’uscita a questo schifo? Lo spero, perché io la mia Italia nonostante tutto la amo e la vorrei vedere risorgere, ma al momento sembra impossibile. A volte penso che per poter risorgere debba davvero toccare il fondo. Penso che la gente debba arrivare a non poter più nemmeno permettersi il pane, solo allora si renderà conto che le cose devono cambiare, ma come cambierebbero? In meglio o in peggio?

A volte ho paura che potrebbero cambiare in peggio e che i miei connazionali potrebbero diventare ancora più egoisti ed appoggiare ancora di più l’illegalità. Non so.
Per ora sono contenta di essere qui


La Storia delle Cose

ottobre 15, 2008

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Ho guardato attentamente “Story of Stuff”, un video che dovrebbero proiettare a Reti unificate in tutto il mondo. Su google video infatti è disponibile la versione intera in italiano (mentre su youtube è suddivisa in 3 parti che trovate sotto questo post) della quale che consiglio caldamente la visione (20 minuti potete spenderli, dai). Magari avete anche figli e con l’aiuto dei disegnini del video potreste scambiarci 4 chiacchiere invece che guardare la ruota della fortuna.

Un bel video. Chiaro, semplice, ben fatto e diretto. Certo, molti potranno contestare un paio di cose: per dire, se non ci fosse stata l’evoluzione dei processori, probabilmente non avremmo nemmeno visto questo video. Sul resto dei temi trattati però, non ho praticamente nulla da obiettare purtroppo. Sì, purtroppo, perché questa è la società a cui siamo giunti e che tutti hanno voluto.

Si parla di economia dei materiali, di un sistema lineare di sfruttamento del nostro pianeta, al cui processo però mancano le persone, considerate solo come variabile di consumo. Siamo consumatori e serviamo a quello, mettiamocelo ben in testa.

Ora, non voglio svelarvi tutti i racconti del mini-documentario, ma mi vorrei poi confrontare con voi, nei commenti su due tematiche in particolare, riguardanti il consumo di oggi, ancora poco “critico”. Parentesi: non fatevi spaventare dal termine consumo critico. Non vuol dire solo boicottare prodotti e multinazionali; consumare in modo intelligente significa semplicemente farlo in modo consapevole ed informato. Ci sono decine di variabili e sfaccettature, con cui però non vi annoierò ora.

L’autrice, Annie Leonard, fa menzione di due procedimenti legati al consumo globale che raramente consideriamo. Parlo dell’obsolescenza pianificata e dell’obsolescenza percepita.

L’obsolescenza pianificata è quel processo a cui ricorrono molti designer, progettisti, ecc…, che li fa discutere su quanto velocemente gli oggetti (non li chiamo feticci, che poi so cosa mi dite) possano avere problemi o rompersi facilmente, lasciando però una minima fiducia nel consumatore per far sì che ricompri lo stesso prodotto. Con la felicità del produttore, che preme in quella direzione, per raccontarla in modo spiccio.

In realtà però le cose non si rompono così in fretta. Ecco perché esiste anche l’obsolescenza percepita. Questa simpatica canaglia ci convince a buttar via una cosa che funziona ancora perfettamente. Come? Cambiando l’aspetto dell’oggetto, per esempio. E siccome dimostriamo la nostra importanza ed il nostro valore consumando, siamo ben felici di comprarci…l’iphone 3G al posto di quello 2G, no?

La moda è un altro esempio emblematico. Un anno vanno i pantaloni in un certo modo, un altro anno no; se tu rimani con un modello vecchio, fai capire alle altre persone che sei out, non alla moda: non hai contribuito alla cosiddetta “freccia d’oro”, come la chiama Annie Leonard. Quindi non vali come una persona che consuma costantemente. Qualcuno direbbe che “sei uno sfigato”.

Un ruolo fondamentale in questi processi è ovviamente rappresentato dai media, da cui siamo costantemente bombardati: messaggi subliminali come “la vostra macchina non va bene”, “il vostro telefono è vecchio”, eccetera eccetera, sono all’ordine del giorno. E qui, lo dico spesso, dovrebbe anche entrare in gioco l’etica di chi lavora nel mondo della comunicazione, ma questo è un altro discorso. Mascherare tutte le porcate dietro il termine professionismo, mi pare un po’ troppo da paraculi.

Nel video poi si parla anche del fatto che, pur possedendo centinaia di oggetti materiali, siamo sempre più infelici. Probabilmente perché non si ha più tempo per vivere davvero. Nonostante la vita di cui disponiamo sia una sola, abbiamo sempre meno tempo per amici, famiglia, ecc…: alcuni esperti hanno calcolato che lavoriamo per più tempo che nelle società feudali.

Già ma quali sono le due attività che vengono maggiormente praticate nel nostro tempo libero? Guardare la tv e fare shopping. Certo, gli Usa rimangono l’esempio principale della Leonard, viste le sue origini. In America infatti lo shopping occupa il triplo o il quadruplo del tempo in più rispetto all’Europa. E si arriva ad un cerchio apparentemente infinito:

  • * Facciamo un lavoro, magari due
    * Arriviamo a casa stanchi morti, ci sediamo sul divano.
    * Guardiamo la tv e la pubblicità ci dice che facciamo schifo perché non possediamo certe cose.
    * Quindi andiamo a comprarle, ma non basta. Dobbiamo lavorare di più per poterle pagare.
    * Conseguentemente torniamo a casa più stanchi, e uscendo meno guardiamo più tv che a sua volta ci incita ad andare più volte al centro commerciale. E così via.
  • Un cerchio senza fine, interrotto solo da infarti o crac finanziari, appunto. E poi, scusate, dove finiscono tutte queste cose che compriamo e che non sappiamo più dove mettere? Nella spazzatura, ovvio! E qui veniamo alla parte del video sui rifiuti.

    Insomma, di questo passo rischiamo di arrivare all’esaurimento delle risorse naturali. Per fare un esempio, negli Usa è rimasto soltanto meno del 4% delle foreste originarie ed il 40% dei cosi d’acqua non è potabile; sostanzialmente stiamo usando più cose di quanto ce ne spettino. Gli Usa più di tutti.

    Non voglio essere anti-americano, ma sono dati di fatto: gli americani rappresentano il 5% della popolazione mondiale, ma consumano il 30% delle risorse e creano il 30% dei rifiuti. Se tutti consumassero come gli americani avremmo bisogno di 4-5- pianeti. Il ragionamento e la risposta classica degli Usa è estendersi e soddisfare i bisogni consumistici indotti della propria popolazione prendendo e usufruendo di ciò che appartiene agli altri, dalle risorse ambientali a quelle energetiche. Nel migliore dei casi questo viene fatto attraverso una folle spesa militare, quando invece va male si ricorre alle bombe.

    Non vi sto dicendo di non comprare più niente e di non consumare. Ma di riflettere e agire con la testa, a cominciare dai nostri consumi, quelli di tutti i giorni. Piccoli o grandi che siano.
    Il mondo, le organizzazioni ed i governi sono comunque fatti dalle persone. Agiamo in prima persona e comincamo a pretendere, a discutere, ad essere attivi. Insegniamo ai più piccoli che non è vero che ormai cambiare le cose è impossibile. Solo chi lo pensa è perduto.

    Perché il mondo non è nato con questo sistema, siamo noi che l’abbiamo creato. E quindi posiamo e dobbiamo trasformarlo, se davvero vogliamo che le generazioni future abbiano una vita dignitosa.
    Senza “se” e senza “ma”. Non basta soltanto prendere la bicicletta e fare la raccolta differenziata per sentirsi un pace con la coscienza.
    Perché la storia delle cose siamo noi, dopotutto. E soltanto noi possiamo cambiarla, possibilmente in meglio.


    prima parte


    seconda parte


    terza parte


    Ottimo lavoro, Yuppie

    luglio 8, 2008

    «Il premier italiano è stato uno dei più controversi leader nella storia di un paese conosciuto per corruzione governativa e vizio – si legge nel profilo -. Principalmente un uomo d’affari con massicce proprietà e grande influenza nei media internazionali. Berlusconi era considerato da molti un dilettante in politica che ha conquistato la sua importante carica solo grazie alla sua notevole influenza sui media nazionali finché non ha perso il posto nel 2006». La biografia pubblicata sul ‘press kit’ non si ferma qui: «Odiato da molti ma rispettato da tutti almeno per la sua ‘bella figura’ (in italiano nel testo) e la pura forza della sua volontà – afferma la biografia – Berlusconi ha trasformato il suo senso degli affari e la sua influenza in un impero personale che ha prodotto il governo italiano di più lunga durata assoluta e la sua posizione di persona più ricca del paese». La biografia di Berlusconi, che cita anche il fatto che da ragazzo «guadagnava i soldi organizzando spettacoli di marionette per cui faceva pagare il biglietto di ingresso», ricorda che il futuro premier italiano mentre studiava legge a Milano «si era messo a vendere aspirapolvere, a lavorare come cantante sulle navi da crociera, a fare ritratti fotografici e i compiti degli altri studenti in cambio di soldi»

    Pensate se fosse successo in Italia. So che è praticamente impossibile, ma provate ad immaginarvelo. Io sarei disposto a pagare per una cosa del genere in diretta nazionale, solo per assistere alle frasi che tirerebbe fuori dopo una sputtanata simile.
    Probabilmente sono stati fraintesi.


    La guerra di Bush è troppo cara

    gennaio 15, 2008

    //pdemocratico.files.wordpress.com

    Dopo 5 e passa anni di morti in Iraq Bush si accorge che l’economia mondiale ha subito varie influenze e modifiche. Pensate, si è persino sbilanciato, affermando che il prezzo del suo caro amico petrolio è un po’ troppo caro. Chissà perché, proprio ora che è fine mandato.

    Dite che prima o poi noterà anche che c’è una guerra in corso?


    La pubblicità ora è social

    novembre 1, 2007

    L’11 settembre 2007 Nick Haley ha postato su YouTube un video da lui realizzato di 30 secondi esatti che mostra le capacità del nuovo ipod touch.
    Il filmato, a parte le bande grigie che compaiono è davvero costruito bene: il sottofondo musicale è «Music is my hot, hot sex», della band brasiliana Css. Le parole della canzone sono quanto mai azzeccate e cadono, giuste giuste, su alcune delle molteplici caratteristiche del nuovo ipod che ha stregato molti bloggers.
    La cosa se volete rivoluzionaria è che Haley ha ricevuto un’offerta dai Jobs’s Boys e dall’agenzia pubblicitaria TBWA per lo spot stesso, che domenica scorsa è stato trasmesso negli Usa. Un’idea davvero originale, anche perché il video ovviamente è stato costruito con software Apple: quale miglior testimonianza per dimostrare la facilità di comunicare con tutto il mondo e la centralità dell’utente?

    L’abbiamo visto anche in questi giorni con le caramelle Valda: grazie ai social media è l’utente il nuovo protagonista, sia nella creazione che nella diffusione dei contenuti.

     

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